Paul McCartney: Ho scritto Yesterday, ma soffro lo stesso


“La fama dei Beatles non mi ha mai messo al riparo dalla vita”. Sir Paul parla a Panorama del dolore. Che quando ha bussato alla sua porta gli ha portato via la moglie Linda e due vecchi amici: George Harrison e John Lennon. Ma parla anche della canzone perfetta e dell’amicizia con Michael Jackson.

«Ciao, sono Paolo e chiamo dall’Inghilterra. Come stai?». Si presenta così, senza filtri e valletti che l’annunciano, l’uomo che ha inventato il pop e le popstar. «Colleghi, senza Paul McCartney oggi saremmo tutti in ufficio con una cravatta al collo» disse Bono a un’affollata cerimonia dei Grammy award. E nessuno osò contraddirlo. «Quel giorno afferrai il senso della mia carriera: avere evitato a qualche migliaio di persone la cravatta e la metropolitana alle 8 del mattino » specifica sir Paul, aggiungendo: «Mio italiano finito, ora inglese».

Certo che per essere il sosia di McCartney ha proprio la sua voce…
Le do una notizia: sono vivo. La storia di un incidente in auto in cui sarei morto, forse decapitato, venne inventata da un dj americano. Per rendere credibile la leggenda, si creò poi una connessione tra i miei piedi nudi sulla copertina di Abbey Road e una cerimonia funebre indiana. Sa, ai tempi degli hippie potevi raccontare di avere visto volare un ippopotamo rosso senza essere preso per un idiota. In America mi hanno chiesto mille volte se fossi Paul o il suo clone. Mi ero preparato una risposta standard: «Nessuno dei due, sono quello che ieri sera è uscito a cena con tua moglie».

Resta una curiosità: perché sulla cover di «Abbey Road» era scalzo?
Avevo un paio di ciabatte scomodissime che mi tagliavano le dita. Dopo qualche scatto le ho buttate via e mi sono messo a piedi nudi.

La scorsa estate è tornato a suonare allo Shea Stadium di New York (abbattuto, ricostruito e ora chiamato City Field) 44 anni dopo lo storico show dei Beatles. Nostalgia?
Tornare sul luogo del delitto è una perversione irresistibile per gli artisti. La magia di quelle notti è finita su Good evening New York City, un cddvd di cui sono davvero orgoglioso. Mi sono venuti a vedere in 120 mila e questa volta, lo giuro, tutti sono riusciti a sentire le canzoni.

L’altra volta, invece, come andò veramente?
Un disastro. Mi diverte pensare che nessuno abbia mai ascoltato uno dei concerti più famosi della storia. Nel 1965 ci presentammo in scena con un’amplificazione ridicola, quasi da cantina. Il risultato fu che noi sul palco non sentimmo nulla. Idem tra il pubblico, a parte le prime due file. C’erano 40 mila fan impazziti davanti a quattro tizi col caschetto che si agitavano come matti senza emettere uno straccio di suono. Visto da fuori doveva essere uno spettacolo surreale. Fu un momento irripetibile di suggestione collettiva. Io, dalla mia postazione, vedevo centinaia di fanciulle in lacrime che si strappavano letteralmente i capelli. E pensavo: ma urlano per noi o per il dolore?

A proposito di ritorni sul luogo del delitto, com’è stato suonare sul tetto dell’Ed Sullivan Theater, la casa newyorkese del «David Letterman Show» (la performance è inclusa nel dvd «Good evening New York City»)?
A metà del primo pezzo ho chiuso gli occhi per una decina di secondi. Quando li ho riaperti ho «visto» George Harrison alla mia sinistra. Per una frazione di secondo è stato come tornare sul tetto del nostro concerto a Londra nel 1970. I miei non sono flash, ma echi del passato. E gli echi, come sa bene, durano più a lungo.

Quando ha un dubbio su un episodio dell’era Beatles, si confronta con Ringo Starr?
Sì, con risultati agghiaccianti. Le nostre conversazioni sul passato sono più o meno così: Ringo, ti ricordi quando John si lanciò in piscina dal primo piano di un albergo di Monaco? E lui: no, Paul, quel tuffo lo fece George un anno prima a Parigi. Non ci prenda per vecchi signori rimbambiti, ma il periodo Beatles, come intensità, vale almeno tre vite.

La metto alla prova: si ricorda come reagì John Lennon la prima volta che gli fece sentire «Yesterday»?
Si mise a ridere aggiungendo che gli sembrava una melodia già sentita. «Dici che potrebbe funzionare?» fu la sua domanda. Per molti mesi il titolo provvisorio del pezzo fu Scrambled eggs (uova strapazzate, ndr).

Come erano i suoi rapporti con John nel dicembre 1980, quando venne ucciso dalla pistola di Mark Chapman?
John se n’è andato nell’unico periodo in cui i nostri rapporti erano più che buoni. Prima e dopo i Beatles avevamo litigato furiosamente su tutto. Nel 1980 riuscivano a parlare per 10 minuti senza sbattere giù il telefono. All’undicesimo ci dicevamo: adesso possiamo litigare un po’?

Essere un Beatles ha attutito i colpi della vita?
Per qualche tempo ho creduto che la mia posizione avesse il potere di anestetizzare le tragedie. Ma, crescendo, si impara a proprie spese che soldi e successo non mettono mai al riparo dalla vita. Quando una malattia s’è portata via Linda, la donna con cui avevo una complicità totale, non me ne è fregato niente di avere scritto Yesterday o Let it be.

Anche George Harrison è morto di cancro. Quando ha saputo dele sue condizioni?
Era tutto chiaro a entrambi dal principio, ma per molto tempo abbiamo fatto finta di niente. Ci siamo comportati come una famiglia dove certi discorsi si rimandano sempre. L’ultimo stratagemma per non soffrire, per non sentire il dolore che arriva e ti paralizza. Sa quel freddo nelle ossa che non passa mai…

Sir Paul, come si sopravvive alla propria leggenda?
Non mi volto mai indietro e non rileggo i miei diari. Se mi fermo e penso a quante persone mi hanno detto che la musica dei Beatles gli ha cambiato la vita, allora mi viene un po’ d’ansia. Sentire oggi in radio canzoni di quarant’anni fa è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione. In questo mondo tutto passa e va, i Beatles no. In quella musica c’è qualcosa che parla al cuore e alle orecchie della gente. E mi fa specie pensare che dietro tutto questo ci sia anch’io.

E dire che in origine lei non voleva nemmeno essere il bassista della band.
Eravamo ad Amburgo intorno al 1961. Stuart Sutcliffe, il nostro uomo al basso, s’invaghisce di una fanciulla di nome Astrid e molla tutto. Decide che nella vita vuole solo fare l’amore e dipingere. Due attività nobili, ma poco remunerative. Però, contento lui… Per come era la musica allora, il ruolo del bassista corrispondeva a quello dello sfigato del gruppo. Quello timido e un po’ goffo che se ne sta in un angolo del palco al buio. Ecco, io non volevo entrare in quella parte. Poi ho accettato e, tutto sommato, ho ridato dignità a un ruolo che tutti consideravano minore e defilato.

È vero che la sua ricchezza ammonta a oltre 750 milioni di sterline?
Non so, per questo posso darle il numero dei miei commercialisti.

Che cosa c’è di normale e ordinario nella vita di Paul McCartney?
Quasi tutto, mi creda. L’anomalia inizia quando salgo sul palco e ci sono 40 mila persone in delirio che mi aspettano. Questo, lo ammetto, non fa parte della vita di un sessantasettenne qualunque. Ma non è che trascorra il mio tempo in tour. Di solito mi alzo alle 6 e mezzo, preparo la colazione per mia figlia (Beatrice, 6 anni, nata dalla relazione con Heather Mills, ndr). Le mie uova strapazzate sono il vanto di casa. Poi la porto a scuola in macchina. Della madre non voglio e non posso nemmeno fare il nome. Questo è l’accordo dopo il divorzio. Non vorrà mica farmi prendere una multa…

Quanto è grande e potente l’impianto hi-fi di casa McCartney?
Il mio rapporto con la tecnologia non è mai iniziato. Mentre tutto il mondo sta scoprendo la musica digitale, io sono appena passato dal mono allo stereo. E a dire la verità non è che mi piaccia tanto.

In «Good evening New York City» suona l’ukelele che le ha regalato George Harrison.
George aveva imparato a suonarlo durante le vacanze nella sua villa alle Hawaii. Ogni tanto si presentava a casa mia con lo strumento e improvvisavamo qualcosa insieme. Per fortuna non esistono registrazioni di quegli «ukelele moments». La nostra carriera ne avrebbe subito sicuramente danni irreparabili.

Com’è nata la collaborazione con Michael Jackson? Incontro spontaneo fra talenti o puro business organizzato dalle case discografiche?
Il giorno di Natale, credo del 1981, squilla il telefono di casa verso le 10 del mattino. Dall’altra parte, una vocina esile sussurra: sir McCartney le piacerebbe ascoltare qualche mia canzone? E io: signorina, non la conosco personalmente, se vuole mi mandi qualche nastro. A quel punto, imbarazzatissimo, mi dice: sir, sono Michael Jackson, non mi riconosce? Quel giorno è nata una grande amicizia. Michael era un uomo impreparato alla vita perché la sua vita era l’arte. Lui non camminava, danzava. Lui non parlava, cantava. I suoi consigli ai musicisti non erano tecnici, ma poetici. Cose tipo: quando prendi quella nota al pianoforte, non essere rigido, suonala come se davanti a te ci fosse il più bel tramonto del mondo. Vedrai che avrà un sound completamente diverso.

La musica dei Beatles, che fosse visionaria o psichedelica, non ha mai rinunciato al gusto per la melodia popolare. Nessuno è più riuscito a scrivere canzoni così orecchiabili senza scadere nella banalità. Qual era il segreto?
Oggi escono dischi che sembrano registrati in un’acciaieria. Solo rumore, tanto ritmo e zero melodie. Questo, molto più del download illegale, ha innescato la crisi del mercato discografico. Ma perché dovrei pagare per portarmi a casa un cd di rumori?Allora, preferisco il suono del mio trapano.

Ha glissato però sul metodo Beatles…
Non voglio sembrare presuntuoso, ma il nostro lavoro sui pezzi era straordinario. C’era la massima cura dei dettagli, l’ossessione maniacale per avere ritornelli memorabili, la voglia di sperimentare e di rifare un coro anche 30 volte finché non aveva raggiunto l’amalgama perfetto tra le voci. Se curi tutto questo con la determinazione di un artigiano, ottieni la canzone perfetta. Noi quattro abbiamo avuto il massimo rispetto per la musica. Abbiamo trattato le nostre canzoni con la cura e l’attenzione dei grandi architetti classici. Nessun edificio moderno può reggere la competizione con le grandi opere del passato. Perché dietro le grandi opere c’è sempre un grande lavoro. Dietro molta della musica di oggi non c’è invece alcun lavoro. E si sente.

Da Panorama.it

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