12 ottobre 1969: "Paul is dead"..









Era la sera del 12 ottobre 1969, quando durante una trasmissione radiofonica in onda sulla stazione radio in FM di Detroit WKNR uno sconosciuto telefona al disk-jockey Russell Gibb che proprio in quel momento sta presentando Abbey Road, uscito proprio in quei giorni negli Stati Uniti.
L’interlocutore si qualifica come H. Alfred e dice di conoscere un drammatico segreto che riguarda i Fab Four.
Della misteriosa telefonata però esiste anche un’altra versione...alcuni sostengono che sarebbe stata trasmessa in diretta e che a farla sarebbe stato uno studente della Eastern Michigan University, tale Tom Zarski.
A distanza di più di 40 anni non esiste ancora una ricostruzione certa di quel che avvenne quella sera del 12 ottobre 1969. Tutti quelli che ci hanno provato si sono persi in una fittissima nebbia.
Ad ogni modo, che sia stato Alfred o che si trattasse di Tom ha poca importanza.
Conta invece il fatto che il tipo inizia a raccontare un evento tragico verificatosi il 9 novembre del 1966.
Alle prime luci dell'alba  un’automobile sbanda e finisce fuori strada. Nell’impatto violento il guidatore resta decapitato. Sempre secondo l’autore della telefonata le poche notizie trapelate subito dopo l’incidente si sarebbero limitate ad informare che non era stato possibile identificare il guidatore a causa delle lacerazioni riportate sul corpo e dello schiacciamento della testa.
Fin qui nulla di particolare. Di incidenti automobilistici ne capitano tanti, purtroppo.
Il telefonista però aggiunge che l’uomo decapitato sarebbe stato niente di meno che Paul McCartney e che la notizia sarebbe stata tenuta deliberatamente nascosta, dagli altri tre musicisti, dallo staff dei Beatles e dal gruppo ristretto dei loro amici e famigliari per “onorare” la memoria di Paul. Ovvero per non mandare perduto il mito della band.
A riprova delle sue affermazioni riporta una serie di elementi più o meno probanti.
Innanzi tutto afferma di sapere che il riconoscimento della salma avvenne quasi immediatamente attraverso il confronto dell’impronta dentale con delle radiografie preesistenti.
Poi aggiunge che nel febbraio del 1967 il fan club ufficiale dei Beatles aveva lanciato il concorso Paul McCartney look-alike contest, ovvero “Cercasi sosia di Paul McCartney”. Tra le centinaia di profili fotografici pervenuti sarebbe stato scelto un tal William Campbell di Londra, già attore e musicista. Campbell sarebbe stato sottoposto anche ad una plastica facciale.
Ma la prova regina – sempre secondo il telefonista – sarebbe contenuta nella copertina dell’album Abbey Road, e sarebbe la targa di una Volkswagen parcheggiata sullo sfondo che mostra chiaramente la scritta "28 IF", ovvero 28 anni se fosse ancora vivo - almeno secondo l'interpretazione proposta.
Nei giorni successivi verranno fuori altre decine di indizi nascosti nella copertina dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Non solo indizi visivi, ma anche sonori. Sussurri, voci e suoni sarebbero stati inseriti ad arte da John e dagli altri negli album successivi alla data dell’incidente. Una sorta di rinnovato necrologio
Prima di analizzare nei dettagli gli sviluppi della telefonata che annuncia la presunta morte di Paul e da l'avvio a PID, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo.  È il 26 giugno del 1966. Alla stazione centrale di Amburgo arriva un treno da cerimonia. È inglese e a bordo ci sono i quattro ragazzi di Liverpool, il loro numerosissimo staff, gli strumenti ed i bagagli.  È l’inizio di quello che Paul, John, George e Ringo considerano l’ultimo tour dei Beatles.  Il clima all’interno del gruppo – al di là delle battute che vengono riservate alla stampa ed ai fan – è di nervosismo e stanchezza.  L’idea che ciascuno dei quattro potesse intraprendere una propria carriera individuale era molto radicata nella ristretta cerchia di collaboratori ed amici.  John Lennon ha già concordato con Neil Aspinall la partecipazione ad un film diretto da Richard Lester, How I Wan The War.  George, che dell’esistenza da Beatle non ne può proprio più, è con la testa altrove e medita un viaggio in India, viaggio che poi farà effettivamente al termine della tournee.  Ringo anche è stanco di fare il giramondo, di non avere quasi più spazi privati e desidera un po’ di tempo per restarsene a casa con Maureen e Zak, il figlio appena nato.  Paul, infine, sembra essere quello più preoccupato del futuro del gruppo. Al termine della tournee dichiarerà di volersi dedicare al proprio arricchimento culturale e di voler seguire di più la carriera teatrale della sua ragazza, Jane Asher.  Serpeggiano poi tante altre paure. Brian Epstein, lo storico manager del gruppo continua ad essere ossessionato dal terrore di un attentato. Teme che durante un concerto qualcuno fuori di testa, confuso tra il pubblico, possa imbracciare un fucile ad alta precisione ed iniziare a fare fuoco sui suoi “protetti”. Inoltre a gravare sul tour c’è la predizione di un famoso chiaroveggente americano che avrebbe visto la morte di tre dei quattro Faber in un incidente aereo. Dopo Amburgo i Fab Four si spostano a Tokio, poi a Manila. Qui respingono al mittente l’invito ad uno special garden party fatto pervenire da Imelda Marcos, consorte del Presidente filippino, e così il giorno dopo i quotidiani del paese titolano a tutta pagina: I BEATLES SNOBBANO IL PRESIDENTE. La partenza dall’aeroporto di Manila – scrive in Shout Philip Norman – il 5 luglio ebbe luogo in un clima ignobile di intimidazione inimmaginabile. Privata della protezione della polizia locale, la comitiva dell band raggiunge l’aereo passando attraverso una doppia fila di funzionari della dogana e di personale dell’aeroporto subendo insulti di ogni genere e ricatti economici. La tournee si sposta negli Stati Uniti. Ma anche qui il clima non è dei migliori. Poco prima del loro arrivo, una rivista per adolescenti ristampa un’intervista di John Lennon rilasciata qualche mese prima all’Evening Standard di Londra. Nell’intervista John, rispondendo ad una domanda del giornalista Maureen Cleave sulla religione aveva affermato: “Il cristianesimo se ne andrà. Si ridurrà e scomparirà… In questo momento siamo più poplari noi di Gesù Cristo”. In Inghilterra l’intervista passa quasi del tutto inosservata. Negli Stati Uniti provoca reazioni indignate ed una vera ondata di proteste che accompagnano tutto il tour. Roghi di dischi a Nashville, programmi radiofonici incentrati sulla denigrazione della musica dei Beatles, falò di vinili e copertine in Alabama sotto lo sguardo incappucciato dei maestridel Ku Klux Klan. La tournee americana è faticosa, difficile e rischiosa e alla fine si rivela poco soddisfacente anche per le sonorità che i quattro riescono a riprodurre dal vivo. 
C’è sempre stata nei fatti una distanza abissale tra il suono raffinato elaborato in studio e quello un po’ 
grossolano dei concerti live. Il 29 agosto i Beatles tengono l’ultimo concerto della tournee al Candlestick Park di San Francisco. Un paio di giorni dopo i quattro tornano in una Londra insolitamente stagliata su un cielo azzurro intenso e attraversata da lievi brezze.  Nelle strade della capitale non si parla d’altro che della Coppa del mondo di calcio vinta il 30 luglio dalla nazionale inglese. I quattro si salutano e si separano con il solo desiderio di godersi qualche mese di tregua, senza nessuna ansia di tornare ad incidere. Quando, i primi di novembre, tornano in studio, il nervosismo che aleggia nell’aria è palpabile. C’è un episodio ricordato da George Martin e raccontato da Philip Norman che è particolarmente indicativo. Una sera Brian Epstein passa ad Abbey Road e si siede ad ascoltare insieme a George Martin una insoddisfacente registrazione di un nuovo brano. Dopo un ulteriore tentativo Brian apre l’intercom dello studio e rivolto a John dice: “Non credo proprio che andasse bene John!”. Lennon, stizzito dall’osservazione, alza gli occhi verso Brian e gli risponde: “Tu pensa alle tue percentuali, Brian. Alla musica ci pensiamo noi”. Sono le avvisaglie della fine di un rapporto – quello tra Epstein e i Faber – durato cinque anni lunghi come cinque secoli. Qualche giorno dopo Brian Epstein tenterà di suicidarsi con una dose eccessiva di sonnifero nella sua casa di Belgravia.
Torniamo al 12 ottobre del 1969. 
Le radio americane riprendono immediatamente la notizia della morte di Paul lanciata da Russell Gibb e nel giro di pochi giorni si determina un’ondata di isteria collettiva paragonabile solo alla trasmissione del 30 ottobre 1938, durante la quale Orson Welles interpreta sulle frequenze della CBS un adattamento radiofonico de "La guerra dei mondi", romanzo di fantascienza di H.G.Wells; il programma scatena il panico perché molti radioascoltatori credono che effettivamente fosse in atto una invasione di astronavi extraterrestri. Secondo la testimonianza di molti collaboratori, l'executive della CBS Davison Taylor piomba in camera di registrazione dopo 15 minuti ed esclama, rivolto a Welles: "Per Dio, interrompi questo coso! Là fuori la gente è impazzita!".  
Ecco, nel novembre del 1969 molti giovani americani sembrano impazziti. In breve alla versione lanciata dal misterioso telefonista se ne aggiunge un’altra secondo la quale Paul sarebbe stato assassinato per sbaglio dalla CIA. Nelle settimane successive è tutto un proliferare di inchieste giornalistiche, di fanzine dedicate solo all’argomento Paul is dead, di ballate e canzoni commemorative. Nei fatti le vendite di Abbey Road salgono vertiginosamente e si fermeranno solo dopo aver oltrepassato quota 5 milioni. Riprendono anche le vendite dell’altro album indicato come denso di indizi,Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Per la smentita ufficiale occorre attendere un mese.

La rivista Life dedica la copertina del numero di novembre a Paul, titolando “Paul is still with us”. Nell’intervista il Beatle, ritratto in un reportage fotografico assieme alla famiglia, afferma: “È tutto veramente stupido…” e lancia una vera bomba: “Vorrei fare quello che ho fatto all’inizio, cioè musica. Noi facciamo buona musica e vogliamo andare avanti così… Ma la faccenda Beatles è finita”..e con ironia dichiara "Le voci sulla mia morte sono oltremodo esagerate.Comunque, se fossi morto, sarei stato sicuramente l’ultimo a saperlo"...frase ormai diventata mitica. Philip Norman in Shout, liquida PID in un paio di pagine come qualcosa di più strano di un imbroglio, di una mistificazione. “È quasi un voler ingannare se stessi”, afferma senza mezzi termini. Un voler ritenere vero qualcosa che si sa non esserlo solo per il perverso piacere di assaporarne il gusto. Tuttavia PID è sopravvissuto alla fine dei Beatles ed anzi, negli ultimi tempi si è riacceso attraverso un dibattito planetario favorito da Internet che ha coinvolto anche personaggi insospettabili.




Da www.igorpatruno.it













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