L'Espresso: Intervista a Paul McCartney




  

Eccovi l'intervista a Paul McCartney uscita con l'Espressso:


Ricomincio da Paul.
La musica per un balletto. Due dischi.
Una nuova moglie a 69 anni. L’ex Beatle
racconta la sua vita. Tra ricordi e progetti
COLLOQUIO CON PAUL MCCARTNEY DI FEDERICO SCOPPIO






"Nella sua casa di Allerton,sobborgo di Liverpool, sognava di diventare un compositore classico: orchestrazioni da pensare,arrangiamenti da    tessere, note da disegnare su un pentagramma. Ma la vita, quando meno te lo aspetti, ti travolge. E nel giro di pochi anni quel musicista classico mancato è diventato il più amato dei Beatles. «Vuole sapere il vero motivo per cui John Lennon ed io iniziammo a scrivere canzoni?», chiede un Paul McCartney affabile e rilassato. «Perché durante uno dei primi concerti che tenevamo insieme, ci ritrovammo nei camerini senza niente da suonare: la band che si era esibita prima di noi aveva appena interpretato tutte le canzoni che avremmo voluto fare noi quella sera».
Così, mentre Paul riponeva nel cassetto il suo sogno “classico”, milioni di persone iniziarono a sognare di essere come McCartney. Un sogno impossibile: e a vedere oggi l’ex Beatle, lo si capisce ancora meglio. A sessantanove anni appena compiuti McCartney ha una forma fisica invidiabile per un uomo che all’apice della gloria dei Beatles si rinchiudeva nel bagno di Buckingham Palace a fumare marijuana. E anche se poi George Harrison ha smentito l’aneddoto, resta il fatto che quel giorno, quando la regina chiese ai Beatles da quanto tempo suonavano insieme, un McCartney un po’ stonato rispose senza pensarci troppo "quarant’anni", suscitando la perplessità della sovrana, che stava consegnando loro l’Mbe, l’onoreficienza di baronetti dell’Impero Britannico.
Da allora, la fama di sir Paul si è misurata in cifre milionarie: che fossero i dischi venduti o il pubblico ai concerti, o gli alimenti per la separazione dalla seconda moglie, Heather Mills. Cifre che imbarazzano. Ma oggi Paul è cambiato: ha appena annunciato l’imminente matrimonio con Nancy Shevell, membro del consiglio di amministrazione della New York Metropolitan Transportation Authority. E ha riaperto il cassetto in cui aveva chiuso il sogno della musica “seria”: «Il New York City Ballet mi ha commissionato la musica per “Ocean’s Kingdom”, un balletto la cui premiere sarà il 22 settembre», racconta. «È una storia fantastica, molto romantica: la purezza dell’oceano si confronta con la barbarie della terra, grazie a un matrimonio tra personaggi fantastici, divinità di nessuna religione». In realtà negli ultimi vent’anni l’ex Beatle ha firmato diverse incursioni nel mondo classico: dagli otto movimenti dell’autobiografico “Liverpool Oratorio” ai quattro di “Ecce cor meum” dedicato alla prima moglie, Linda. Questo lavoro per il New York City Ballett però sembra entusiasmarlo in modo particolare: «Il balletto è l’arte trapiantata in un gioco olimpico: c’è confusione organizzata, c’è gran movimento e impegno». C’è gran fermento, attorno a Paul: il balletto sarà probabilmente replicato per la fine dell’anno a Londra. Intanto continua la ristampa del suo catalogo “post Beatles” con inediti e filmati allegati: dopo “Band On The Run”, “Run Devil Run”, “McCartney” e “McCartney II”, stanno per uscire “Driving Rain”, un lavoro dolce e sussurrato del 2002, ispirato dall’amore per la seconda moglie Heather Mills, e “Chaos & Creation In The Backyard”,
prodotto nel 2005 da quel Nigel Godrich già all’opera con i Radiohead e Beck: e si sente. Un’agenda affollata e un momento felice che Paul McCartney racconta a “l’Espresso”.
Sir Paul, come si fa per non farsi seppellire dalla propria leggenda?
«Non ho una spiegazione universale, so cosa funziona su di me. Non mi guardo alle spalle, non mi volto indietro e cerco di non rileggere i miei diari: li conservo ma non li tocco. Se mi fermo e lucidamente penso a quante persone mi hanno detto che la musica dei Beatles ha cambiato la loro vita, mi viene un bel po’ d’ansia. Sentire oggi in radio canzoni di quarant’anni fa è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione, perché nella società moderna tutto passa e va, i Beatles no. In quella musica c’è qualcosa che parlava e parla al cuore e alle orecchie della gente. E mi fa specie pensare che dietro tutto questo ci sia anch’io».
Forse perché, come molti le rinfacciano, dopo lo scioglimento dei Beatles lei non visse neanche un momento di rifiuto, ma intraprese subito la carriera di solista e poi con sua moglie Linda e i Wings?
«Ebbi un rifiuto diverso. Nei mesi successivi allo scioglimento rimisi mano ad alcune canzoni che avevo scritto e scartato negli anni precedenti: stavo allestendo il mio primo album solista, che porta il mio nome. Con i Beatles avevo libero accesso agli studi di Abbey Road, avevamo i nostri ingegneri del suono. Improvvisamente mi trovai slegato da tutto questo: decisi di utilizzare il salone di casa come studio e di suonare tutti gli strumenti da solo. Una cosa che oggi è assai comune, ma allora proprio per niente. In questo modo riuscii presto a recuperare la mia intimità, a riconnettermi con alcuni angoli segreti del mio animo che erano rimasti scottati dalle vicende degli ultimi tempi. Quello che mi dava più tristezza, in quel momento, era che non stavamo facendo più musica insieme: non avere più l’approvazione dei miei compagni fu particolarmente difficile, ma alla fine trovai la soluzione ai miei problemi dentro me stesso. E il risultato è uno dei miei lavori più personali che abbia mai registrato».
Essere stato uno dei “Fab Four” però ha segnato non soltanto la sua carriera professionale, ma anche la sua vita.
«In effetti lo ammetto, penso ancora come un Beatles, è un modo di sentire che non si può perdere. Dopo che ci eravamo sciolti, quando formai i Wings, per qualche tempo mi sono rifiutato di reinterpretare i classici dei Beatles. Cercavo qualcosa di nuovo, era successo tutto troppo violentemente per non lasciarmi scottato. Poi però ho iniziato a pensare al pubblico: ho capito che molti desideravano ancora ascoltare le nostre canzoni e mi è tornata la passione. E poi per qualche tempo sì, ho pensato che il mio status mi proteggesse, mi permettesse di essere immune dalle tragedie. Poi di colpo il destino si porta via la donna che hai vicino, com’è successo a me, e capisci che soldi e successo non bastano».
Molti anni prima le avevano portato via anche l’amico con cui era cresciuto, anche se i vostri rapporti non erano più quelli di un tempo… «Alcuni sentimenti vanno al di là delle vicissitudine umane. L’affetto che nutro per John Lennon rimane enorme. Questo viene prima di tutto, il resto ha poco valore».
Viene in mente che nell’album “Good Evening New York City”, basato sui concerti del 2009, lei ha reso omaggio alla memoria di John Lennon e di George Harrison, che è mancato nel 2001. Lo ha fatto per mettere a tacere le persistenti voci sui vostri rapporti tormentati? «È tutto più semplice di come si pensa: si tratta di ricordi e affetti. Quando ho ripreso il repertorio musicale dei Beatles per adattarlo a quei concerti ho fatto i conti con i ricordi, a volte piacevoli altre meno, legati a quando ci riunivamo in studio per registrare, alle prime occasioni che avemmo per sperimentare quelle canzoni dal vivo.
Mi è servito a farmi sentire ancora in contatto con loro tramite la nostra musica: può sembrare un modo di sentire un po’ sentimentale, ma a me piace così. C’è una canzone che ho scritto per John, si chiama “Here Today”: è un atto di amore e, ogni volta che la canto sto dicendo a tutto il pubblico quanto sia stato importante per me. Oppure mi capita di suonare l’ukulele che George portò da un viaggio alle Hawaii - me lo regalò tanti anni fa - e mi sembrava un modo per sentirlo vicino».
Quando pensa a John come lo ricorda?
«Mi viene in mente una storia divertente. Quando all’inizio del 1980 pubblicai “McCartney II”, lessi che John, dopo aver ascoltato il brano di apertura “Coming Up”, aveva detto che per lui era giunto il momento di tornare a lavorare sodo. Era esattamente ciò che succedeva tra noi ai tempi dei Beatles: se lui componeva una canzone a me veniva lo stimolo di comporne un’altra, si innescava un processo creativo davvero prezioso».
Eravate spinti anche un po’ dall’invidia?
«No, niente affatto: avevamo due approcci totalmente opposti, lui aveva l’ironia di chi aveva capito davvero i tempi in cui stava vivendo. Io invece mi concentravo sull’aspetto puramente artistico, ero più slegato di lui dalle vicende sociali e politiche». 
Si dice che all’inizio, quando le chiesero di diventare il bassista dei Beatles, lei non voleva essere saperne di accettare quel ruolo. È vero?
«È successo nel 1961, ad Amburgo. Stuart Sutcliffe, il nostro bassista, perde la testa per una ragazza - ricordo ancora il suo nome, si chiamava Astrid - e decide di mollare tutto quanto. Stabilisce che da quel momento la musica non fa più parte della sua vita, vuole solo fare l’amore e dipingere. Due attività nobili, ma poco remunerative: però, contento lui… Per come era la musica allora, il ruolo del bassista corrispondeva a quello dello sfigato del gruppo: quello timido e un po’ goffo che se ne sta in un angolo del palco al buio. Ecco, io non volevo affatto entrare in quella parte. Poi ho finito per accettare e, tutto sommato, ho ridato dignità a un ruolo che tutti consideravano minore e defilato».
Si legge in giro che lei in casa sia un uomo ordinario, è mai possibile?
«Oh sì. Mi sveglio molto presto, preparo la colazione per mia figlia Beatrice, che ha otto anni, e l’accompagno a scuola. Faccio jogging per tenermi in forma e prepararmi ai concerti: così quando sono sul palco non sento più i miei sessantanove anni. E non mi stanco di allenarmi perché so che l’esercizio fisico ha una finalità ben precisa: è essenziale quando devo rievocare lo spirito dei Beatles». 




Eravamo quattro amici al pub
«Se Paul non fosse esistito saremmo tutti degli impiegati e ogni giorno metteremmo la cravatta», disse di lui Bono Vox, leader degli U2. Cantante, compositore, produttore discografico e cinematografico, Paul McCartney è nato nel 1942 a Liverpool da padre pianista e trombettista jazz. A quindici anni incontrò John Lennon e lo convinse a far entrare anche George Harrison nella sua band, i Quarrymen. Quattro anni dopo, assoldato anche il batterista Ringo Starr, i Beatles iniziarono a scalare le classifiche e tra il ’63 e il ’64 si assestò la loro fama, prima in Gran Bretagna, poi negli Usa e in tutto il mondo. Diverse canzoni del repertorio provengono dalla sua penna: “Yesterday”, “Love Me Do”, “Michelle”, “Yellow Submarine”, “Lady Madonna”, “Let It Be” e molte altre. Nel dicembre 1970 i Beatles si sciolgono e Paul continua a dedicarsi alla musica formando i Wings con la prima moglie Linda Eastman, fotografa rock morta nel 1998, e dedicandosi alla carriera solista. Impegnato in campagne contro le mine antiuomo e la fame nel mondo, l’ex Beatle si sposerà a breve per la terza volta con l’americana Nancy Shevell in una cerimonia per pochi intimi. Poi volerà a New York per concludere le riprese di “The Love We Make”, dedicato all’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, film in bianco e nero diretto da quell’Albert Maysles che nel 1964 documentò i “Fab Four” alla conquista degli Usa. Una bella carriera per un cantante che una leggenda basata su presunti messaggi subliminali contenuti nei dischi e nella foto di copertina del disco “Abbey Road” sostiene sia morto nel 1966.


Foto: Bettmann - Corbis - B. Bernstein - MPL 


Da L'Espresso.

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