L”Osservatore Romano’ : ”I Beatles piacciono ancora perchè scarseggia la musica di qualità”
L'Osservatore Romano riabilita i Beatles..e non solo..li elogia anche definendoli "artisti di qualità".
Eccovi l'articolo per intero di Gaetano Vallini apparso ieri sull' Osservatore Romano:
A quarant'anni dallo scioglimento dei quattro di Liverpool è ancora beatlemania
"Perché i Beatles sono tanto superiori? È facile dire che la maggior parte dei loro concorrenti siano spazzatura; più importante è affermare che la loro superiorità è tangibile: ogni canzone degli ultimi tre album è memorabile. I migliori esemplari tra queste melodie memorabili - e sono una vasta percentuale (Here, There and Everywhere, Good Day Sunshine, Michelle e Norwegian Wood sono già dei classici) - reggono il paragone con quelle dei compositori della grande epoca della canzone: Monteverdi, Schumann, Poulenc".
Che oggi un famoso direttore d'orchestra come Riccardo Chailly affermi di amare i Beatles e che Yesterday gli ricordi la terza di Mahler non meraviglia più di tanto. Ma nel 1968 il compositore di musica classica Ned Rorem mostra certamente una buona dose di coraggio avvicinando il nome dei Beatles a quelli dei classici della musica "seria". Eppure l'articolo dal quale è tratta la citazione, pubblicato il 18 gennaio sul "New York Review of Books", dopo anni di recensioni scritte con malcelata sufficienza dagli esperti, apre finalmente un dibattito tra gli addetti ai lavori sul valore delle composizioni della band. L'articolo di Rorem può ora essere letto nel bel libro Read The Beatles (Roma, Arcana, 2010, pagine 541, euro 22,50) curato da June Skinner Sawyers, un'antologia di scritti d'epoca sull'impatto, l'influenza e la modernità dei quattro ragazzi di Liverpool che cambiarono per sempre il volto della musica e della società. Attraverso più di cinquanta articoli, saggi, interviste ed estratti di libri - alcuni dei quali rari, altri noti come l'intervista di Jonh Lennon a Maureen Cleave per l'"Evening Standard" del marzo 1966, con la frase sui Beatles più popolari di Gesù - la curatriceripercorre l'intero arco della carriera dei Fab Four.
Soprattutto gli articoli dei primi anni sono interessanti, tra tanto spericolate quanto preveggenti esaltazioni, poche per la verità, e conformistiche e rassicuranti stroncature, ben più numerose. Infatti, malgrado il travolgente, inatteso successo, l'opinione comune è che i Beatles siano solo una moda passeggera che si esaurirà presto, come tutte le manie dei giovani. Tuttavia non senza preoccupazione, se il "Daily Mail", trattando della beatlemania, si domanda con una certa ansia: "Dove ci porterà?".
I più si soffermano sull'esteriorità. Il 18 novembre 1963 "Newsweek" pubblica un articolo sprezzante e anonimo - uno dei primi negli Stati Uniti - che, dopo aver ironizzato sul look dei Beatles, spiega: "La loro musica è uno dei suoni più persistenti in Inghilterra, da quando le sirene dei raid aerei non sono più in funzione (...) È penetrante, è suonata a un volume alto oltre l'umana ragione, ed è anche sorprendentemente ripetitiva. Come il rock'n roll, al quale si avvicina, fa più effetto guardarla che ascoltarla. I ragazzi si dimenano, saltellano e fanno giravolte; pare che una volta abbiano persino baciato le chitarre". Il 1° dicembre 1963, sul "New York Times Magazine" Fredrick Lewis però è più moderato: "Di base (si tratta di) rock'n roll, ma meno formale, e leggermente più inventivo. Il loro spettacolo, che include parecchi discorsi a braccio tra i vari pezzi, è sia divertente sia audace", coinvolgendo "tutte le classi sociali e i livelli di intelligenza".
C'è anche chi nella beatlemania vede una "minaccia" per la società, come Paul Johnson che su "New Statesman" del 28 febbraio 1964 non si lascia impressionare dal successo dei Beatles. Disturbato dal "nuovo culto della gioventù", il giornalista stigmatizza un intervento del ministro dell'Informazione, William Deedes ("ex alunno della prestigiosa Harrow School", precisa con sarcasmo), che a proposito dei Beatles, non senza lungimiranza, aveva detto: "Preannunciano un movimento culturale che sta prendendo vita tra i giovani e che potrebbe entrare a far parte della storia del nostro tempo. Agli occhi di tutti sta accadendo qualcosa di importante e incoraggiante".
"Se i Beatles e i loro pari - si rammarica Johnson - sono ciò che effettivamente la gioventù britannica vuole, non ci resta che disperare. Mi rifiuto di crederlo (...) A sedici anni, io e i miei amici abbiamo ascoltato per la prima volta l'esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven: ricordo ancora oggi l'entusiasmo. Non avremmo sprecato neanche trenta secondi del nostro preziosissimo tempo sui Beatles e i loro simili (...) Ciò che il signor Deeds non riesce a capire è che la vera crema del popolo degli adolescenti, i ragazzi e le ragazze che saranno i veri creatori e leader della società di domani, non si avvicinano neanche a un concerto di musica pop".
Ipse dixit. Ma già all'epoca c'è chi si sofferma sul valore musicale dei Beatles. Pionieristico è l'articolo pubblicato sul "Times" il 23 dicembre 1963. A scriverlo è William Mann, che tuttavia non se la sente di firmarlo, forse per non intaccare la sua fama di critico di musica classica. Mann definisce Lennon e McCartney "due giovani e talentuosi musicisti", e lo fa parlando di chitarre "fresche e armoniose", di "allegro e spesso strumentale uso del duetto vocale", di "cambi di sopradominante da Do maggiore a La bemolle maggiore, e poi verso modali di estensione minore" che sono il loro "marchio di fabbrica". E dopo aver sottolineato che "per decenni le canzoni pop inglesi sono sempre state prese in prestito dagli Stati Uniti", il critico rileva che i pezzi della coppia hanno un "carattere indigeno molto netto". Perciò, "la notizia che ora i Beatles sono diventati i favoriti anche del pubblico americano è carica di una certa, gratificante ironia".
Eppure all'arrivo trionfale dei Beatles negli States si contrappone l'atteggiamento sprezzante con cui la stampa più tradizionale li accoglie. "Dotati di un certo talento (...) i Beatles sono per il 75 per cento pubblicità e per il 20 per cento taglio di capelli, più un 5 per cento di lamenti ritmati", scrive John Horn, critico televisivo del "New York Herald Tribune". "Sono più che altro un numero di magia, che deve meno all'Inghilterra di quanto non debba al circo Barnum". Il "Washington Post" li definisce "asessuati e scialbi", mentre il "Washington Star" descrive come "minimo" il loro talento musicale, aggiungendo: "Noi non abbiamo mai sfornato uno Shakespeare, ma non abbiamo mai sfornato neanche un Beatles".
Nel 1964 esce anche il film A Hard Days Night, antesignano dei moderni videoclip e Busley Crowther sul "New York Times" ne parla come di "una commedia formidabile". Il successo è inarrestabile, tanto che su "Cosmopolitan" di dicembre Gloria Steinem definisce i Beatles "l'unica grande attrazione del mondo". E non è che l'inizio. Il meglio deve ancora venire. Dopo Help e For Sale, tra il 1965 e il 1966 arrivano anche Rubber Soul e Revolver, gli album del definitivo passaggio tra un vecchio (di appena due anni, ma che ha già cambiato la musica) e un nuovo che porterà a una vera rivoluzione.
Ma questo ha un prezzo. Nel settembre del 1966, quando le vendite iniziano a calare durante quello che poi sarebbe diventato il loro ultimo tour, "Time" pone la domanda: "La Beatlemania è finita?". Si pensa che dopo la novità iniziale il fenomeno si stia attenuando. I Beatles del resto lasciano le arene per gli studi di registrazione. Ma poi arriva Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967) e l'effetto è dirompente. Quasi tutta la stampa mondiale lo saluta come un capolavoro. "Newsweek" paragona i pezzi di Lennon e McCartney alle opere di Alfred Lord Tennyson, Edith Sitwell e T. S. Eliot, mentre il critico teatrale del "Times" Kenneth Tynan definisce l'uscita dell'album "un momento decisivo per la storia della civiltà occidentale". Non manca, però, qualche voce fuori dal coro. Richard Goldstein sul "New York Times" definisce il disco "fraudolento", dall'"effetto generale oberato, modaiolo e confusionario", suscitando non poche reazioni piccate.
Il 1968 porta le ben note turbolenze: in quel clima rovente i Beatles registrano la prima versione di Revolution, poi inserita nel White Album, che non piace alla stampa di sinistra per la sua ambivalenza, ma che "Time" trova "entusiasmante". Ma i quattro già sentono che la fine è vicina. Giusto il tempo di realizzare il bellissimo Abbey Road nell'estate 1969, che lo scioglimento viene ufficializzato il 10 aprile dell'anno dopo. Per quasi tutti nel mondo è un evento inatteso. "Perché - come scrive Mark Hertsgaard - i Beatles non rappresentavano semplicemente il sodalizio artistico più straordinario del loro tempo, ma ne erano anche il più importante simbolo culturale".
Nonostante ciò, al momento della fine i critici si domandano se la musica dei Fab Four durerà. "Presto la prossima generazione creerà nuovi simboli attraverso i quali identificarsi, che avranno poco senso per tutti noi per cui gli anni Sessanta hanno significato tanto", scrive Dorothy Gallagher su "Redbook" nel settembre 1974, aggiungendo malinconicamente: "Se la musica dei Beatles, come gruppo o come solisti, sopravvivrà è ancora da scoprire. Ma per quanto riguarda noi, possiamo dire che i Beatles hanno segnato le nostre vite in modo indelebile".
Da www.vatican.va
Eccovi l'articolo per intero di Gaetano Vallini apparso ieri sull' Osservatore Romano:
A quarant'anni dallo scioglimento dei quattro di Liverpool è ancora beatlemania
E i critici sentenziavano tra intuizioni e cantonate
"Perché i Beatles sono tanto superiori? È facile dire che la maggior parte dei loro concorrenti siano spazzatura; più importante è affermare che la loro superiorità è tangibile: ogni canzone degli ultimi tre album è memorabile. I migliori esemplari tra queste melodie memorabili - e sono una vasta percentuale (Here, There and Everywhere, Good Day Sunshine, Michelle e Norwegian Wood sono già dei classici) - reggono il paragone con quelle dei compositori della grande epoca della canzone: Monteverdi, Schumann, Poulenc".
Che oggi un famoso direttore d'orchestra come Riccardo Chailly affermi di amare i Beatles e che Yesterday gli ricordi la terza di Mahler non meraviglia più di tanto. Ma nel 1968 il compositore di musica classica Ned Rorem mostra certamente una buona dose di coraggio avvicinando il nome dei Beatles a quelli dei classici della musica "seria". Eppure l'articolo dal quale è tratta la citazione, pubblicato il 18 gennaio sul "New York Review of Books", dopo anni di recensioni scritte con malcelata sufficienza dagli esperti, apre finalmente un dibattito tra gli addetti ai lavori sul valore delle composizioni della band. L'articolo di Rorem può ora essere letto nel bel libro Read The Beatles (Roma, Arcana, 2010, pagine 541, euro 22,50) curato da June Skinner Sawyers, un'antologia di scritti d'epoca sull'impatto, l'influenza e la modernità dei quattro ragazzi di Liverpool che cambiarono per sempre il volto della musica e della società. Attraverso più di cinquanta articoli, saggi, interviste ed estratti di libri - alcuni dei quali rari, altri noti come l'intervista di Jonh Lennon a Maureen Cleave per l'"Evening Standard" del marzo 1966, con la frase sui Beatles più popolari di Gesù - la curatriceripercorre l'intero arco della carriera dei Fab Four.
Soprattutto gli articoli dei primi anni sono interessanti, tra tanto spericolate quanto preveggenti esaltazioni, poche per la verità, e conformistiche e rassicuranti stroncature, ben più numerose. Infatti, malgrado il travolgente, inatteso successo, l'opinione comune è che i Beatles siano solo una moda passeggera che si esaurirà presto, come tutte le manie dei giovani. Tuttavia non senza preoccupazione, se il "Daily Mail", trattando della beatlemania, si domanda con una certa ansia: "Dove ci porterà?".
I più si soffermano sull'esteriorità. Il 18 novembre 1963 "Newsweek" pubblica un articolo sprezzante e anonimo - uno dei primi negli Stati Uniti - che, dopo aver ironizzato sul look dei Beatles, spiega: "La loro musica è uno dei suoni più persistenti in Inghilterra, da quando le sirene dei raid aerei non sono più in funzione (...) È penetrante, è suonata a un volume alto oltre l'umana ragione, ed è anche sorprendentemente ripetitiva. Come il rock'n roll, al quale si avvicina, fa più effetto guardarla che ascoltarla. I ragazzi si dimenano, saltellano e fanno giravolte; pare che una volta abbiano persino baciato le chitarre". Il 1° dicembre 1963, sul "New York Times Magazine" Fredrick Lewis però è più moderato: "Di base (si tratta di) rock'n roll, ma meno formale, e leggermente più inventivo. Il loro spettacolo, che include parecchi discorsi a braccio tra i vari pezzi, è sia divertente sia audace", coinvolgendo "tutte le classi sociali e i livelli di intelligenza".
C'è anche chi nella beatlemania vede una "minaccia" per la società, come Paul Johnson che su "New Statesman" del 28 febbraio 1964 non si lascia impressionare dal successo dei Beatles. Disturbato dal "nuovo culto della gioventù", il giornalista stigmatizza un intervento del ministro dell'Informazione, William Deedes ("ex alunno della prestigiosa Harrow School", precisa con sarcasmo), che a proposito dei Beatles, non senza lungimiranza, aveva detto: "Preannunciano un movimento culturale che sta prendendo vita tra i giovani e che potrebbe entrare a far parte della storia del nostro tempo. Agli occhi di tutti sta accadendo qualcosa di importante e incoraggiante".
"Se i Beatles e i loro pari - si rammarica Johnson - sono ciò che effettivamente la gioventù britannica vuole, non ci resta che disperare. Mi rifiuto di crederlo (...) A sedici anni, io e i miei amici abbiamo ascoltato per la prima volta l'esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven: ricordo ancora oggi l'entusiasmo. Non avremmo sprecato neanche trenta secondi del nostro preziosissimo tempo sui Beatles e i loro simili (...) Ciò che il signor Deeds non riesce a capire è che la vera crema del popolo degli adolescenti, i ragazzi e le ragazze che saranno i veri creatori e leader della società di domani, non si avvicinano neanche a un concerto di musica pop".
Ipse dixit. Ma già all'epoca c'è chi si sofferma sul valore musicale dei Beatles. Pionieristico è l'articolo pubblicato sul "Times" il 23 dicembre 1963. A scriverlo è William Mann, che tuttavia non se la sente di firmarlo, forse per non intaccare la sua fama di critico di musica classica. Mann definisce Lennon e McCartney "due giovani e talentuosi musicisti", e lo fa parlando di chitarre "fresche e armoniose", di "allegro e spesso strumentale uso del duetto vocale", di "cambi di sopradominante da Do maggiore a La bemolle maggiore, e poi verso modali di estensione minore" che sono il loro "marchio di fabbrica". E dopo aver sottolineato che "per decenni le canzoni pop inglesi sono sempre state prese in prestito dagli Stati Uniti", il critico rileva che i pezzi della coppia hanno un "carattere indigeno molto netto". Perciò, "la notizia che ora i Beatles sono diventati i favoriti anche del pubblico americano è carica di una certa, gratificante ironia".
Eppure all'arrivo trionfale dei Beatles negli States si contrappone l'atteggiamento sprezzante con cui la stampa più tradizionale li accoglie. "Dotati di un certo talento (...) i Beatles sono per il 75 per cento pubblicità e per il 20 per cento taglio di capelli, più un 5 per cento di lamenti ritmati", scrive John Horn, critico televisivo del "New York Herald Tribune". "Sono più che altro un numero di magia, che deve meno all'Inghilterra di quanto non debba al circo Barnum". Il "Washington Post" li definisce "asessuati e scialbi", mentre il "Washington Star" descrive come "minimo" il loro talento musicale, aggiungendo: "Noi non abbiamo mai sfornato uno Shakespeare, ma non abbiamo mai sfornato neanche un Beatles".
Nel 1964 esce anche il film A Hard Days Night, antesignano dei moderni videoclip e Busley Crowther sul "New York Times" ne parla come di "una commedia formidabile". Il successo è inarrestabile, tanto che su "Cosmopolitan" di dicembre Gloria Steinem definisce i Beatles "l'unica grande attrazione del mondo". E non è che l'inizio. Il meglio deve ancora venire. Dopo Help e For Sale, tra il 1965 e il 1966 arrivano anche Rubber Soul e Revolver, gli album del definitivo passaggio tra un vecchio (di appena due anni, ma che ha già cambiato la musica) e un nuovo che porterà a una vera rivoluzione.
Ma questo ha un prezzo. Nel settembre del 1966, quando le vendite iniziano a calare durante quello che poi sarebbe diventato il loro ultimo tour, "Time" pone la domanda: "La Beatlemania è finita?". Si pensa che dopo la novità iniziale il fenomeno si stia attenuando. I Beatles del resto lasciano le arene per gli studi di registrazione. Ma poi arriva Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967) e l'effetto è dirompente. Quasi tutta la stampa mondiale lo saluta come un capolavoro. "Newsweek" paragona i pezzi di Lennon e McCartney alle opere di Alfred Lord Tennyson, Edith Sitwell e T. S. Eliot, mentre il critico teatrale del "Times" Kenneth Tynan definisce l'uscita dell'album "un momento decisivo per la storia della civiltà occidentale". Non manca, però, qualche voce fuori dal coro. Richard Goldstein sul "New York Times" definisce il disco "fraudolento", dall'"effetto generale oberato, modaiolo e confusionario", suscitando non poche reazioni piccate.
Il 1968 porta le ben note turbolenze: in quel clima rovente i Beatles registrano la prima versione di Revolution, poi inserita nel White Album, che non piace alla stampa di sinistra per la sua ambivalenza, ma che "Time" trova "entusiasmante". Ma i quattro già sentono che la fine è vicina. Giusto il tempo di realizzare il bellissimo Abbey Road nell'estate 1969, che lo scioglimento viene ufficializzato il 10 aprile dell'anno dopo. Per quasi tutti nel mondo è un evento inatteso. "Perché - come scrive Mark Hertsgaard - i Beatles non rappresentavano semplicemente il sodalizio artistico più straordinario del loro tempo, ma ne erano anche il più importante simbolo culturale".
Nonostante ciò, al momento della fine i critici si domandano se la musica dei Fab Four durerà. "Presto la prossima generazione creerà nuovi simboli attraverso i quali identificarsi, che avranno poco senso per tutti noi per cui gli anni Sessanta hanno significato tanto", scrive Dorothy Gallagher su "Redbook" nel settembre 1974, aggiungendo malinconicamente: "Se la musica dei Beatles, come gruppo o come solisti, sopravvivrà è ancora da scoprire. Ma per quanto riguarda noi, possiamo dire che i Beatles hanno segnato le nostre vite in modo indelebile".
Da www.vatican.va
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