L’architetto che suonò con i Beatles
Il contesto della fotografia. È fine giugno del 1965, Roma. Nell’anticamera del teatro Adriano, a un passo da Castel Sant’Angelo e dal Vaticano, i gruppi che supportano i 4 concerti romani della più famosa band della storia posano, a turno, con il quartetto di Liverpool. Dietro, in piedi, da sinistra a destra, George Harrison, John Lennon (entrambi scomparsi, com’è noto), Ringo Starr e Paul McCartney. Davanti, «I Giovani Giovani di Pino Donaggio», cioè i baresi Nico Lomuto (chitarra: oggi abita negli Usa), De Cillis (basso elettrico) e i veneziani Sandro Orlandini (batteria) e Gianni De Sabata (pianista, morto alcuni anni fa).
Quella foto immortala un momento indimenticabile. Lasciamo la parola a De Cillis: «All’unico tour italiano dei Beatles, nell’estate di 47 anni fa, suonavano Peppino Di Capri, già famoso, un giovanissimo Fausto Leali, i New Dada di Maurizio Arcieri che poi fonderà i Krisma, e noi, “I Giovani Giovani di Pino Donaggio”, cioè Nico, Sandro, Gianni e io». Quei musicisti italiani furono gli apripista dei mitici Beatles ai due recital di Milano (Velodromo Vigorelli, 24 giugno) e Genova (Palazzo dello Sport, 26 giugno) e ai quattro concerti di Roma (Teatro Adriano, 27 e 28 giugno).
L’architetto barese racconta: «Per ogni data i concerti erano due, in pomeridiana e in serale. Dopo la esibizione degli italiani c’era un intervallo di 40 minuti. Tutto l’impianto di amplificazione veniva spazzato via e veniva montato il service stratosferico dei Beatles. Altoparlanti Vox inglesi di ultima generazione, per un suono che era in effetti pulitissimo. Per tutti quei 40 minuti risuonavano le grida assordanti, ininterrotte, delle ragazze. Come un unico urlo».
L’amarcord è inarrestabile: «Loro arrivavano insieme. John, Paul e George imbracciavano le chitarre, già collegate, nello stesso istante. Ringo saltava dietro la batteria. E il concerto iniziava senza un attimo di esitazione. Noi ci godevamo lo spettacolo in prima fila. Dalla quinta fila in poi, però, le urla delle fan coprivano integralmente la musica». De Cillis descrive un momento topico dei concerti dei Beatles: «A Roma, al teatro Adriano, a un certo punto alcune ragazze si sfilarono le mutandine e le lanciarono sul palco». Quindi non era leggenda metropolitana, questa delle mutandine? «No, affatto», sorride.
Un altro fotogramma di Beatlemania, vissuto in prima persona dall’allora studente barese: «Accanto alla postazione di Ringo c’era una grossa cesta». A che cosa serviva? «A raccogliere i pupazzetti di pelouche delle fan. Alcune facevano centro, a recuperare gli altri ci pensavano lo stesso batterista o gli addetti al palco».
Il 5 e il 9 ottobre scorsi, due anniversari. Il primo: i 50 anni dell’uscita di «Love Me Do», il primo 45 giri dei Beatles. Il secondo, malinconico, sarebbe stato il 72esimo compleanno di John Lennon. A proposito: «Due episodi su John. Era solito indossare un cappello in stile marinaresco, di panno blu. Al Velodromo Vigorelli di Milano - ricorda De Cillis - un sottufficiale dell’Aeronautica, sfidando il cordone di protezione, riuscì a strapparglielo dalla testa, pochi istanti prima del concerto. Qualche anno dopo, Fausto Leali lo ricomprò a 300mila lire. Una cifra enorme, per quei tempi».
L’altro episodio che emerge dalla inesauribile memoria di De Cillis dimostra la estrema professionalità dei ragazzi di Liverpool: «Sempre al Vigorelli, i Beatles attaccarono “I Feel Fine”. Ero lì, davanti a loro. Lennon partì con l’assolo iniziale di chitarra e si rese conto che una corda era calata, forse per l’umidità insopportabile. Noi musicisti ci accorgemmo della lieve stonatura. John lanciò un’occhiata a George, dall’altra parte dello stage. Fu una frazione di secondo. Harrison spostò l’interruttore della sua chitarra elettrica e si attaccò all’assolo interrotto da John. Il pubblico non si accorse di nulla».
Il contatto più stretto di De Cillis con i Beatles avvenne sul volo notturno da Genova a Roma, il 27 giugno 1965: «Il loro scrupoloso manager Brian Epstein decise che il trasferimento doveva avvenire di notte, e su Ciampino anziché su Fiumicino, per evitare l’assalto delle ragazzine. Ciononostante, alle 3 del mattino, nel secondo aeroporto romano c’erano 3mila fan entusiasti ad aspettare la band inglese».
Come andò il viaggio? «Eravamo a bordo di un turboelica di una trentina di posti. John sedeva avanti, da solo. Poco più dietro, Ringo. Il più burlone dei quattro sembrava McCartney». Perché mai? «Un operaio del loro staff, un inglese di 150 chili, russava beatamente. Paul, agitando un foglietto vicino al suo naso, gli provocava l’effetto-mosca. Quel poveretto tentava di cacciare il fantomatico insetto e di riprendere il sonno disturbato. Ma Paul ricominciava, imperterrito. Quelli del mio gruppo e io ridevamo. A un certo punto, poi, George sfoderò una chitarra acustica e intonò l’arpeggio di “Giochi proibiti”. Magistralmente». In corso Vittorio Emanuele il libro dei ricordi si chiude. Ma in realtà resta aperto per sempre.
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