La faccia buona dei Beatles
Da un campo di tulipani rossi spunta un volto del tutto inedito di George Harrison, sorridente e in armonia nel proprio elemento. È nella sua reggia da 120 camere in Friar Park, nell’Oxfordshire, dove negli anni Settanta ha costruito anche uno studio di registrazione di qualità superiore agli storici studios di Abbey Road. Ma il suo vero regno era il giardino.
Così lo vediamo nel documentario di Martin Scorsese, “Living in the Material World”, tre ore e mezzo, che uscirà nei cinema del Regno Unito un solo giorno, martedì, per essere subito dopo disponibile in dvd. A dieci anni dalla scomparsa di Harrison, morto di cancro il 29 novembre 2001, il film di Scorsese illustra il percorso spirituale che lo ha trasformato da rockstar a filantropo ossessionato dalle tecniche di meditazione orientale.
Se pure è passato alla Storia come il “quiet one”, quello tranquillo, taciturno, dei Beatles, Harrison nel film rivela una personalità molto più contraddittoria di quanto abbiamo creduto per anni: un uomo pratico, determinato e duro quando serve, ma anche selettivo e molto legato agli affetti personali che protegge strenuamente dal mondo esterno.
«È una storia che cattura in pieno l’essenza di George» spiega la vedova Olivia, 63 anni, che si racconta nel documentario insieme a di Paul McCartney, Ringo Starr, il figlio Danhi Harrison, anche lui musicista, Yoko Ono, Eric Clapton, Tom Petty, Phil Spector e i Monty Phytons Terry Gilliam e Eric Idle.
Olivia qualche giorno fa ha rivelato che il marito non si curava del successo. Come vorresti essere ricordato, gli chiede un giorno. E lui: «Non vorrei proprio essere ricordato. Non credo che servirebbe». Oggi Ringo spiega: «Nella sua personalità brillante, George includeva un carico di amore e un altro di rabbia». E non deve essere stato facile raccogliere tanto materiale inedito: la storia dei Beatles, infatti, è stata esaminata e riproposta in ogni modo. Eppure anche i fans più scrupolosi impazziranno davanti alle lettere che Harrison spedisce alla madre all’apice della Beatlesmania, oppure per le immagini degli esordi ad Amburgo, quando nel 1960 le autorità costringono un George diciassettenne a lasciare la band e tornare a Liverpool.
È illuminante anche la scena in cui Eric Clapton, l’amico con il quale ha diviso droghe, palco e una moglie, Patti Boyd, a lei sono dedicate sia “Something” che “Layla”, ricorda quando sorprese George a comporre “Here Comes the Sun”. Ma “Living in the material world”, tratto dal titolo di un album solista del 1973, rende soprattutto giustizia al talento del compositore, la cui eredità è stata sempre schiacciata dalle presenze ingombranti quanto geniali di John Lennon e Paul McCartney. «Ho pensato che se lo facevano loro, allora potevo farcela anche io» dichiara in una rara intervista l’autore di brani toccanti come “While My Guitar Gently Weeps” e appunto “Something” che insieme a Yesterday, conta il più alto numero di cover mai eseguite dei Beatles. Chi invece conosce le immagini delle registrazioni di “Let It Be”, dove McCartney fa il maestrino in studio impartendo ordini al taciturno Harrison, proverà un groppo alla gola sentendo lo stesso Paul che dice: il suo apporto nei Beatles è stato fondamentale. Come chitarrista, infatti, Harrison è un innovatore, convinto che misura e sobrietà fossero il vero carburante di un sound.
Era l’uomo dalla sintesi estetica, con la nota giusta al posto giusto, l’opposto di quello che lui stesso definiva in maniera denigratoria «guitar olympics». «Più entravo nella sua esistenza e più mi attirava» confessa Scorsese al Rolling Stone «credo che Harrison sia riuscito a comprendere la natura effimera sia del successo che del fallimento».
Autore del leggendario docu-film su Bob Dylan, il regista ha l’idea per il film su George proprio alla prima londinese di “No Direction Home", nel 2005, quando Olivia Harrison gli propone di raccontare la storia del marito. E ha fatto bene: «Scorsese racconta tutto dal punto di vista di George, come se fosse in prima persona» ammette il produttore Nigel Sinclair.
Tra i rari “footage” ce n’è anche uno sulla prima lezione di sitar ricevuta da Ravi Shankar. da quel momento, Harrison farà di tutto per introdurre la musica indiana nel pop. Un paradosso, ma quando con “My Sweet Lord” riesce a portare una preghiera in sanscrito, mantra degli Hare Krishna, al primo posto in classifica tutti si inchinano. Lo stesso Shankar deve la sua popolarità a Harrison che, oltre a sostenerlo e produrgli dischi, lo aiuterà in tante cause umanitarie, come il concerto per il Bangladesh nel 1971.
Se invece l’amicizia con i Monty Python, icona della satira britannica, non era un mistero, pochi sanno che Harrison aveva finanziato il film “Brian di Nazareth” per il semplice motivo che «desiderava vederlo sullo schermo» come ricorda il comico Eric Idle. Scorsese ripercorre anche il drammatico episodio del 1999, quando un fanatico entra nella casa degli Harrison ferendo gravemente George con un pugnale.
Uomo di grande spiritualità, ma il film rivela anche le smodate passioni di Harrison per le droghe e per le donne, illustrando così il suo universo contraddittorio tra mondo materiale e libertà spirituale.
Commenti
Posta un commento